martedì 23 aprile 2013

Pasqua nella tradizione iblea


Siamo un tantino in ritardo per parlare delle tradizioni pasquali, purtroppo una serie di impegni mi hanno impedito di farlo prima...
La Pasqua, commemorazione della resurrezione di Gesù Cristo, è la principale festività della liturgia cristiana, molto sentita in varie culture ed in particolare nella tradizione siciliana.
Come narra il Nuovo Testamento, Cristo fu crocifisso alla vigilia della Pasqua ebraica. Il nome Pasqua risale appunto all’ebraico pesah, “passaggio” e deriva dalle istruzioni trasmesse da Dio a Mosè. Con tale nome gli ebrei ricordano il passaggio della schiavitù alla libertà, ma anche il passaggio dell’angelo sterminatore che uccise tutti i primogeniti del popolo egiziano: il popolo ebreo venne risparmiato segnando gli stipiti delle proprie abitazioni con il sangue dell’agnello che aveva sacrificato.
Questi aspetti vengono ripresi nella pasqua cristiana dove indica il “passaggio dalla schiavitù del peccato alla libertà della grazia divina per mezzo della purificazione ottenuta col sangue del Cristo, l’agnello innocente immolato sulla croce, come citato anche nel libro dell’Apocalisse.
Gli stessi simboli sopravvivono ancora oggi nell’uso di consumare carne di agnello o nel comprare dolci con tale forma o con decorazioni che la riportano.
Ad essi si associano fino a fondersi altri simboli come quello della colomba, simbolo di pace, ma anche di purezza (era l’offerta prescritta per i poveri durante il rito della purificazione al tempio).
La rinascita alla nuova vita liberi dal peccato originale, grazie al sacrificio messianico, ha fatto si che si associasse alla festa l’uovo quale simbolo (di origine pagana) di nuova vita che nasce. Ecco quindi spiegata la presenza dell’uovo nei festeggiamenti pasquali, con l’avvento del consumismo si è passati da consumo delle classiche uova, alla loro sostituzione con quelle di cioccolato, alcune anche artisticamente decorate.
Tutta l’area iblea è caratterizzata da numerose tradizioni e processioni caratteristiche che si svolgono nel corso della settimana santa. Nelle chiese, dopo la messa del giovedì santo, l’altare del Santissimo Sacramento viene adornato a festa con fiori e germogli di grano. In vari paesi si svolgono i riti della passione di Cristo il venerdì santo a cui la popolazione partecipa con sentita devozione. Il culmine dei festeggiamenti si raggiunge con le processioni del giorno di Pasqua, che caratterizzano alcuni borghi iblei, con cui si rappresenta la “Paci”, ovvero la rappresentazione dell'incontro tra Maria, libera dal lutto, e Gesù risorto, “a Maronna vasa vasa” a Modica, “A Paci” di Comiso, “U Gioia” di Scicli, la Madonna ddò Scontru e il Gesùmmaria a Ferla o ancora la “Paci paci” a Canicattini Bagni. La Pasqua rappresenta l’occasione di far festa un po’ in tutte le culture, la tradizione della cucina siciliana è piena di preparazioni tipiche di questa festa, soprattutto in campo dolciario.
C’è tuttavia da notare che in passato non tutti si potevano permettere i sontuosi dolci che oggi conosciamo. La dicotomia economica che si riscontrava in passato nella popolazione si rifletteva certamente in una dualità culinaria caratterizzata da differenti preparazioni: mentre la parte benestante della popolazione si poteva permettere cibi raffinati e dolci sontuosi come gli agnelli pasquali o le cassate siciliane spesso preparati nei monasteri, la maggioranza della popolazione apparteneva all’ambiente rurale. Questa tuttavia non rappresentava una limitazione ai festeggiamenti in tavola. La cucina siciliana di origine contadina si caratterizza per la semplicità degli ingredienti usati, come le verdure, ed anche per il largo uso della fantasia personale che la rende davvero molto ricca e saporita. In occasione delle festività pasquali le massaie erano solite preparare la “jaddina cina” (gallina ripiena), una ricetta iblea preparata per le festività importanti come la Pasqua o il Natale, la gallina veniva svuotata delle interiora e riempita con il riso condito, cucita e lessata in acqua salata. La gallina poteva essere disossata o meno prima di essere riempita, mentre con il brodo della cottura si preparava la pasta fatta in casa.
Una delle tante tradizioni, ancora vivissima in tutta la Sicilia, sono i “cuddure, aceddi e pupi cull’ova” che consiste nel confezionare speciali pani contenenti appunto delle uova intere sode, possono essere due, o più, a secondo della grossezza del pane; bellissimi i ricami, i disegni, i fregi, gli intagli e i decori: piccoli capolavori per bravura e pazienza delle nostre nonne.
A confine tra pane e dolci, in genere i pupi cu l’ova, con forme umane, di animali o di oggetti, incastonate di uova so­de col guscio colorato o decorato, si confe­zionavano tra il giovedì e il venerdì santo e si regalavano ai bambini o tra fidanzati. Spesso il pane con le uova aveva forma di paniere e veniva donato con preferenza alle bambine, in­sieme alla pupidda, la bambolina. Per i maschietti c’era il cavalluccio e il porcospino.
Questi pani augurali di Pasqua venivano preparati insieme al pane tradizionale all’interno delle mura domestiche e cotti nel forno a legna in pietra (u furnu i casa).
Tra le più svariate le forme che possono assumere: antropomorfe (pupi e pupe), zoomorfe (cavallucci, galline, uccellini), fitomorfe (alberi e fiori) o oggetti di uso quotidiano come canestri, ceste e corone. Diversissimi anche i nomi dati a questi pani, a seconda dei vari paesi della Sicilia dove erano preparati: panarinu, panarìna, panarédda (siracusano e ragusano); acéddu cu l’óva, puorcuspinu, cistinu e cuffitédda (siracusano); ciciliu (catanese); vaccarédda (trapanese); pupi, pupiddi, pupidda (palermitano ed un po’ ovunque); cuddùra e cuddurédda (messinese, ma anche altrove); canniléri (agrigentino).
Un’altra tradizione sono i “picureddi”, dolci a base di pasta reale, a forma di agnello con una posa classica ovvero sdraiato su un fianco, sopra un prato verde disseminato di confettini multicolori, con una banderuola rossa simile a quella che nell’iconografia sacra è in mano a San Giovanni, infilzata sul dorso.  Queste forme ad agnello sono realizzate con la pasta reale detta anche Martorana, poiché  furono le suore del Monastero della Martorana di Palermo a tramandare l’arte di questi frutti di marzapane dalle forme e dai colori più disparati, lucidati con gomma arabica. La pasta reale altro non è che un composto realizzato con pasta di mandorle dolci, albume d’uovo e zucchero. Il nome deriva dall’arabo Mauthaban  che originariamente indicava una moneta, poi un'unità di misura, quindi lo stesso contenitore del marzapane.
Dolce principe delle festività pasquali è però la notissima cassata siciliana, a base di pan di spagna, ricotta di pecora e pasta di mandorle o pasta reale, il suo nome deriva dal termine arabo qas'at, ciotola, in riferimento al contenitore dove si prepara.
La possiamo trovare anche tutto l’anno ad abbellire le vetrine delle pasticcerie con le sue variopinte decorazioni di frutta candita.
In occasione delle ricorrenze pasquali, le nostre nonne preparavano anche tradizionali “viscotta” fatti in casa con l’ausilio di antiche ricette: biscotti di mandorla (“cosi aruci ri mennula”), biscotti al latte, biscotti di pasta dura (pasta forte) con la forma di colombe (“palumméddi”), “ciascuna” con ripieno di fichi, “viscotta scaniati”, “viscotta ‘nciliati” e  “cassateddi” di ricotta, tutte preparazioni da forno che allietavano le tavole contadine.
I “cassateddi ri ricotta” o “cassateddi i Pasqua” o “lumiere”, da non confondere con la tradizionale cassata siciliana anch’essa mangiata il giorno di Pasqua, sono delle preparazioni a base di pasta dolce a forma di piccolo recipiente, riempite con ricotta condita con cannella e cioccolato e cotte in forno. Ne esiste anche una variante chiusa a forma di focaccina, molto simile alle ‘mpanatigghie modicane, mentre quest’ultime sono ripiene di carne e cioccolato, quelle di ricotta hanno lo stesso contenuto delle cassatine o in alternativa si riempivano con una farcia di ricotta salata e prezzemolo. Spesso tali preparazioni avvenivano in quantità limitata, correndo anche il rischio di rimanerne senza come testimoniato anche dal detto “cu n’appi n’appi cassateddi i Pasqua” (chi ne ha avute ne ha avute cassatine di ricotta), ma solamente i più poveri non potevano permettersele neanche per il giorno di Pasqua, “mischìnu cu nun manciàu cassàti ’a matìna ’i Pasqua” (povero chi non ha mangiato cassate la mattina di Pasqua). Ancora un altro detto era legato a questa preparazione dolciaria: “na vota all’unu i cassateddi ri Pasqua” (una volta ciascuno le cassatine di Pasqua, ovvero le cose liete).
Oggi che la nostra cultura culinaria è orientata verso il “già pronto”, alcune di queste antiche tradizioni, non riprese dalle pasticcerie come i “pupi cull’ova”, sopravvivono ormai solo nei libri e nei ricordi degli anziani, correndo il rischio di svanire per sempre.

[ Da “Pasqua nella tradizione iblea, pag. 42 del bimestrale « I Siracusani » n. 68, Anno XVI, Gennaio-Marzo 2012
e da Giuseppe e Maria Mazzarella Cosi aruci - Tradizione dolciaria akrense” e “Pani ri casa e cosi minuti - L’arte panificatoria iblea”, Morrone Editore, Siracusa, 2010 ] 

venerdì 1 marzo 2013

Il ricamo nella tradizione iblea


Ci fu un tempo in cui non si faceva la spesa nei negozi, ne tantomeno si andava ai centri commerciali, ma si produceva in casa tutto ciò di cui si aveva bisogno.
Era il tempo in cui si lavorava e si viveva in campagna, oggi si indica con il nome di civiltà o cultura contadina. Non si soffriva letteralmente la fame, ma non si nuotava certamente nel lusso che conosciamo oggi, quello era appannaggio dei soli ceti nobili.
La dicotomia economica che si riscontrava in passato nella popolazione si rifletteva certamente in una dualità culinaria, ma soprattutto nella preparazione dei manufatti necessari alla vita sociale nel mondo contadino. Le masserie iblee rappresentavano spesso il “mondo” chiuso attorno a cui ruotava la vita del contadino e di tutta la sua famiglia: una vita agreste fatta di semplicità e del lavoro umile dei campi.
La civiltà contadina si caratterizzava per la produzione all’interno del nucleo familiare di tutto ciò che serviva, utilizzando quanto era disponibile sul territorio. Il contadino aveva un occhio attento a tutto ciò che lo circondava, particolarmente per le erbe spontanee che poteva semplicemente raccogliere senza avervi effettuato alcun lavoro, con esse realizzava, nei lunghi periodi invernali di fermo agricolo, corde (Ampelodesma mauritanicus), recipienti vari (Arundo donax, Chamaerops humilis, Olea europea silvestris, ecc.), utensili per il lavoro, medicamenti e perfino il cibo. Finanche le recinzioni si ottenevano con i tipici muri a secco realizzati impiegando le pietre ottenute dallo spietramento del terreno.
Anche all’interno del focolare domestico avveniva la stessa produzione in economia, particolarmente per quanto riguardava gli indumenti, si produceva tutto ciò che serviva quotidianamente alla famiglia e spesso si pensava anche al futuro preparando il corredo per il matrimonio delle figlie. Quando ci si poteva permettere si separarsene, le figlie piccole venivano mandate nei conventi per apprendere i segreti e le tecniche del ricamo e del cucito dalle suore che ne erano le secolari depositarie insieme all’arte culinaria e dolciaria in particolare.
Il lavoro quotidiano, la tessitura, la roba della sposa (corredo nuziale) da sempre rappresentano un punto cardine di grande importanza per il popolo siciliano, che rievocano un passato di grande tradizione. Il lavoro delle donne siciliane poteva essere diviso in due parti, la prima rappresentava il governo della casa con la cucina, il riassetto e la cura della prole, la seconda consisteva nel ricamo sapiente dei tessuti realizzando nel corso dei tempi vere e proprie opere d’arte.
L’arte del filare doveva essere conosciuta fin dai tempi più remoti. Dal ’300 gli sfilati e i merletti hanno impreziosito i capi del corredo e la biancheria delle fanciulle siciliane. Gli inventari dotali rivelano appieno la bellezza e la ricchezza della biancheria isolana, raccontando la storia di questi intrecci preziosi che fanno di un semplice filo di seta o di cotone, d’oro o d’argento, un ricamo inimitabile o una impalpabile trina. Le lenzuola di tela, le coperte di vario colore e tipo, i guanciali, le tovaglie e le cortine delle alcove sono decorate finemente con ricami in oro e in seta, che raffigurano piccoli animali molto stilizzati, reminiscenza di antichi motivi medievali di origine aristocratica. In passato per ogni figlia femmina si cominciava il ricamo delle stoffe sin da quando erano bambine. I pezzi erano 12 o multipli di 12, conservati in cassapanche di legno ed elencati in una lista.
Lo “sfilato siciliano” e il “filet” sono due delle più note manifatture del ricamo isolano. Lo sfilato siciliano risale alla fine del XIV secolo nella Sicilia orientale, mentre il Filet nasce in Francia e da lì passando per l’Europa arriva fino in Sicilia.
Sia lo Sfilato siciliano che il Filet, nel ’500 ebbero parecchio successo presso i Signori in Italia ed in Francia, ma tali manifatture furono molto apprezzate pure dal Clero che le impiega tuttora per ornamenti sacri.
Entrambe le tecniche sono ormai da tempo entrate a far parte del più pregiato corredo e arredo che si tramanda di generazione in generazione.
Fu sotto la dominazione araba che si diffuse l’arte del ricamo, e dello sfilato in particolar modo, trovando terreno fertile nella particolare situazione delle donne siciliane di allora, relegate in casa, senza apertura verso lo studio o verso attività professionali. La loro cultura era limitata ed esse, nella pace del convento, apprendono l’uso dell’ago per l’utilità della casa e vengono iniziate da preparatissime suore, all’arte del ricamo, dove eccellono per abilità ed intelligenza creativa.
Studi dimostrano come l’arte del ricamo in Sicilia, praticata già al tempo dei Musulmani, sia stata dai Normanni poi coltivata e incentivata fino a farne una delle maggiori attività degli Opifici del Palazzo Reale di Palermo. Il ricamo si diffuse rapidamente in tutta la Sicilia con lavorazioni di ogni genere, da quelle preziose con fili d’oro, perle e coralli per vestimenti principeschi e curiali, per arredi aulici, per paliotti e gonfaloni e altri apparati ecclesiastici, all’abbigliamento popolare e arredamento per la casa. Nel XV secolo entrano in vigore le Leggi Suntuarie che proibiscono i ricami con fili d’oro e d’argento per frenare l’uso di materiali eccessivamente sfarzosi; in alternativa si evolve rapidamente come modalità di abbellimento il “ricamo in bianco”, eseguito su tela bianca con filo bianco. Tra ’500 e ’600 l’arte del ricamo diviene esercizio per giovani dame che imparano a ricamare prima di sposarsi o entrare in convento; la capacità di ornare i tessuti diviene requisito necessario nella classe elevata per una perfetta educazione femminile. Il ricamo è diffuso però in tutti i ceti sociali ed anzi era attività privilegiata delle giovani orfane ospiti dei conventi e degli orfanotrofi oppure di giovani che venivano date in affidamento a famiglie nobili o ricche che, in cambio di vitto e alloggio, le impiegava per tutta la vita alla realizzazione dei corredi. Nell’800 il ricamo in bianco è onnipresente nella biancheria personale e da casa, con grande varietà di punti e fantasia dei motivi decorativi. L’attitudine al ricamo è stata tramandata di generazione in generazione fino ai nostri giorni, insieme alle diverse tecniche di ricamo in bianco.
Le prime scuole di questi ricami sorsero a Palermo ed a Ragusa soltanto dopo la prima guerra mondiale. L’organizzazione è quella tipica del lavoro a domicilio. Nel passato, alcune donne più intraprendenti si organizzarono come “imprese” distribuendo alle ricamatrici la stoffa ed il materiale, perché ognuna di esse, nell’ambito della propria casa, si dedicasse a questo lavoro nei ritagli di tempo. Ecco, dunque, sorgere le categorie della ricamatrice, della sfilatrice, ecc.
L’imprenditrice raccoglieva questo lavoro e si incaricava essa stessa di venderlo o in casa propria o attraverso i negozianti. Oggi queste tecniche sono andate quasi del tutto perdute, se non fosse per il lavoro di recupero di appassionate che sono andate a ricercare le pochissime persone anziane, sia laiche che suore, che ancora conoscono le tecniche.
Il filet è un’autentica rete sulla quale possono essere ricamati motivi di ogni tipo, la cui realizzazione richiede un’abile utilizzo delle dita secondo una tecnica specifica; sulla rete, che può avere forma trapezoidale, rettangolare o quadrata, verrà poi realizzato il ricamo desiderato. Variante del filet classico, e il filet all’uncinetto in cui il ricamo avviene annodando il filo secondo una tecnica particolare attraverso l’ausilio di uno strumento con un piccolo uncino sulla punta mediante il quale si aggancia il filato per la lavorazione. Da questo strumento deriva appunto il termine di “filet all’uncinetto” o, più semplicemente “uncinetto”, conosciuto anche con il nome francese di “crochet”.
Come la maglia si lavora un filo continuo ed un punto per volta, ma con un solo strumento, l’uncinetto appunto. La tecnica consiste nella lavorazione di un filo sottile  per ottenere un merletto mentre se si utilizza un filato più spesso si ottengono lavori molto resistenti ed utili; il tipo di lavoro a trama fitta è però stato il più comune.
Si presta per realizzare di tutto: abiti, borse, fiori, tende, centri, tappeti da tavolo, paralumi, ecc. È considerato uno dei lavori più versatili e soddisfacenti e tutto quello che occorre per realizzare articoli originali e creativi è un uncinetto e un po’ di filo; permette di realizzare pizzi, centrini, capi di abbigliamento, ecc. lavorando un unico capo filato continuo.
Lo sfilato rappresenta una tecnica di passaggio alla trina e si lavora al telaio. Si distinguono, per il diverso modo di lavorazione lo sfilato siciliano ’400 (praticato nella zona di Comiso), ’500, ’700 (tipico della zona di Ragusa) e il ’500 Vittoria (un tempo lavorato nel Laboratorio di Sfilati Siciliani d’Arte, ma oggi praticamente scomparso).
Viene eseguito in diverse fasi: il disegno, la sfilatura, il ricamo.
Tradizionalmente ogni fase di lavorazione veniva eseguita da persone diverse, ognuna esperta in quella tecnica. Per prima cosa si sfila, sia nel senso dell’ordito che in quello della trama la tela, ottenendo così una “rete”; la tela più comunemente usata è il puro lino. Si riuniscono poi a cordoncino i fili rimasti in modo da formare un reticolato sul quale si forma il disegno, ricamando con il punto tela (sfilato ’400) ed il punto rammendo (sfilato ’700).
Nello sfilato siciliano ’500 il disegno viene riportato sulla tela e si sfila il tessuto intorno, mentre il ’500 Vittoria è una rappresentazione dello sfilato ’500 ma con caratteristiche tipiche del laboratorio che lo ideò con raffigurazioni ispirate ai bassorilievi greci.
Altra tipologia di ricamo tramandatasi in Sicilia, ma non solo, è il Tombolo, un’arte che nasce dalle abili mani delle ricamatrici del luogo, le quali lavorano un finissimo pizzo di fili di lino o cotone, che vengono avvolti in piccoli fusi di legno. Il ricamo nasce seguendo uno schema disegnato su un cartoncino, che viene fissato su un cuscino cilindrico, il tombolo appunto. La sua diffusione si ebbe grazie all’iniziativa di una nobildonna catanese, la baronessa Angelina Auteri, moglie del principe di Biscari, che in seguito ad una miracolosa guarigione da un male di cui era vittima, decise, insieme alla moglie, di dedicarsi alla fede entrando in convento e donando in beneficenza l’intero ingente patrimonio.
Pizzo delicato e raffinato, viene realizzato con filo di cotone molto sottile, richiede molta abiltà, esperienza e pazienza. Sul supporto viene fissato, con degli spilli, il foglio con il disegno del merletto. La lavorazione comincia con punti filza che seguono alcune parti del disegno, poi si procede all'intreccio utilizzando come strumenti dei bastoncini detti fuselli attorno ai quali viene arrotolato il filo necessario alla lavorazione. I fuselli usati nelle realizzazioni più complesse possono essere anche un centinaio, mentre per quelle più semplici bastano poche coppie. Con i fuselli le merlettaie eseguono intrecci da tessuto, nodi, legature, che possono andare a coprire anche grandi superfici (un intera tovaglia). Alla fine del lavoro, il pizzo è staccato dai punti di supporto, e può essere fissato a una stoffa o utilizzato così come è, a seconda della sua grandezza. In funzione delle dimensioni del filato, il merletto risulta più o meno pregiato e raffinato.
Nel rispetto della tradizione, all’interno della casa del contadino spesso si trovava il tradizionale telaio siciliano che veniva impiegato per la tessitura dei manufatti più umili come le piccole bisacce di lana, quelle grandi a larghi quadri neri su fondo bianco, le frazzate, cioè le belle coperte di lana, quelle bianche di cotone e poi la tela di lino e di canapa per la biancheria, e il modesto filunnenti, cioè il ‘filo da niente’, per tovaglie e strofinacci da cucina. La massaia soleva tessere tutto quanto occorreva al fabbisogno familiare, i capi più pregiati venivano poi completati con ornature eseguite con i metodi delle lavorazioni del ricamo.
tunisino, oppure dipinti a mano.
Il telaio e tutti suoi pezzi sono descritti in molti proverbi, modi di dire e indovinelli con bella efficacia espressiva. L’arcolaio, di legno ma più spesso di stecche di canna, eseguito dalle stesse massaie, viene così cantato: cci hàiu ddùrici frati, tutti ddurici ncatinati, fanu a vita re ddannati ovvero “ho dodici fratelli  (le stecche di canna), tutti e dodici incatenati, fanno la vita dei dannati”, girano cioè senza requie ad avvolgere il filo.
Oggi è possibile visionare questi attrezzi soltanto nei musei della civiltà contadina di Modica, Cava d’Ispica, Buscemi, Palazzolo Acreide, Floridia, ecc., dove vengono ricreati gli ambienti della vita agreste, oppure in alcuni musei specifici come quelli dello sfilato di Chiaramonte Gulfi e di Solarino e quelli del tessuto di Scicli e Canicattini Bagni, mentre chi è riuscito a salvare queste arti antiche oggi tiene corsi privati per chi vuole imparare.